Tra le stanze che si susseguono inquadro ... quella adibita al gig. Cinque per quattro, probabilmente più piccola del salone che ho in fitto ma comodi divanetti e soffici push la rendono magica e per un attimo fantastico su quella strana suite simil-alcova. Poi là, in bella mostra, sta la vecchia Redondo di Carlo e mi rendo conto di cosa sia venuto a fare.
Beh , lo si vede in giro da un po’ ma è come se lo si sentisse da sempre e non perché sia derivativo, chi non lo è oggigiorno, ma perché Carlo Barbagallo, classe ’85, qui confezionato da neri mustacchi retro, pantaloni di fustagno e camicia di velluto a coste scura, riesce a riempire il mio immenso vuoto recondito, incolmabile dopo la morte del talentuoso Elliot Smith e le poetiche lasciate immature del giovane Holden.
In realtà molto più che uno chansonnier, Carlo Barbagallo è come il mio cowboy playmobil che da infante usavo nelle battaglie tra Dart Fener e Skywalker ed a cui lasciavo sempre l’oneroso ma anche onorevole compito di risolvere la faccenda con pistolettate vintage contro i loro laser fantascientifici. In buona sostanza, godo non appena si intonano le note della splendida Paper Mirror dal suo recente Floppy Disk ... (siete ancora lì, affrettatevi a reperirlo per poter, un giorno, dire ai vostri nipotini che ascoltavate buona musica da giovani senza farvi prendere per il culo), perchè quel suo modo weird (giusto per calcare la mano sull’inflazione di certi termini ormai privi di significato) e quella sua attitudine antifolk mi spiaccicano in fronte le belle cose barrettiane con un retrogusto Genesis e così tanta roba che mi viene in mente giusto il tempo di annotarla per poi subito dimenticarla, tanto è originale il mio cantautore. Mi tuffo così nel profondo mare di Carlo e lo scorgo subito popolato da pesci con strane forme, uno ha la testa di Wayne Coyne ed il corpo di Beck, un altro assomiglia a Mr E. degli Eels mentre questo simile ai Mercury Rev si lascia persino accarezzare come uno squalo intorpidito da potenti sedativi ma pronto a risvegliarsi ed a digrignare i denti capaci di lacerarti le carni. Loops sovraincisi, suoni iperbolici e rumoristica dignitaria, tutto ha quel sapore dell’alternativa Portland o Brooklyn ma che un buffo sat-nav ha, da qualche tempo ormai, scambiato per la splendida isola che anch’io vivo come Carlo e che forse è pronta ad esportare anche qualcosa che non siano arance e cronaca nera. Cazzo, e tu chi sei? Un ambiguo individuo si è accasciato sulle mie spalle e sembra voler rapire la mia attenzione. Mi rendo immediatamente conto che si tratta però di un povero sognatore che, come me, si è fatto trascinare dai suoni di Barbagallo o forse è l’effetto dell’angustia della stanza che non può lasciarti davvero spazio per pretese di eccessiva amenità, ad ogni modo lo consolo con un’amichevole pacca ed un pollice in su e lui mi annuisce commosso. Il brano finisce e gli applausi sono talmente fragorosi e vicini che quasi si rischia di schiaffeggiare l’artista che invece ringrazia chino sulla sua scaletta scritta con grafia improbabile mentre accenna un altro pezzo.
E così riconosco Spectacle (da Floppy Disk), degna del suo nome che mi purifica l’anima con quel blues elettrico che fu degli Zeppelin ma qui nella sua accezione sghemba fatta di psichedelia e preziosi cambi tempo. Ancora Dust, (da Seven Months In Three Times) che sa di Blur che scoprono i peli sul petto. Same Old Lament (da The), un Banhart che invece li ha persi e poi perle di EgoGod, Grey lady per una discografia elitaria e colta (del resto tutta reperibile su Barbie Noja Records).Il passo è talvolta incerto ma è come dare quel tocco di vero a tutto, come il segreto del gran chef nel suo piatto migliore. E mentre la sua umiltà ti spiazza di fronte a cotanta bravura non puoi che gioire! Per stasera gran carico di fregola e goduria ma adesso tutti a nanna, domani si va a lavorare.
Francesco Cipriano